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Manif pour tous, ma tutt* chi?

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di Manuela Menolascina

Trovo penoso il proliferare, in questi ultimi tempi, in Italia come all'estero, delle fantomatiche manif por tous ,nate sulla falsariga - e in opposizione - delle vincenti manifestazioni francesi a favore del mariage pour tou(te)s, il matrimonio per tutt*, vale a dire anche omosessuale e transgender.
In questa accezione, quella del matrimonio egualitario francese - tra l'altro proposto e approvato dal governo socialista senza troppe esitazioni - la locuzione “pour tous” ha un senso.
In Francia il matrimonio, infatti, prima appannaggio delle coppie eterosessuali, è divenuto realmente un diritto per tutt* e di tutt*.
Possiamo dire e pensare tutto del matrimonio, possiamo ritenerlo un'istituzione vetero, possiamo non riconoscerci in esso e arguire che si tratti dell'ennesimo tentativo per cercare di normalizzare la nostra differenza e appiattirci su convenzioni e rituali.
Ma di certo non si può dire che il mariage in versione francese sia un privilegio discriminante.
Per tutt* lo è davvero. Qui non ci piove.
Al contrario, le sedicenti manif pour tous di ecumenico hanno ben poco.

Per tutt* chi? Verrebbe da chiedere. Not in my name, of course.
La pretesa di rappresentare il tutto, di ergersi a portavoce di un sentire condiviso, è il più grande affronto che si possa fare alla libertà e alla democrazia.
Quando ho sentito parlare per la prima volta di manif pour tous ho avuto serie difficoltà ad associare questo slogan al movimento teo-con e anti-homo. La confondevo con una manifestazione a favore dei diritti e delle adozioni lgbt, nel caso specifico.
Ciò mi ha portato a riflettere sul grande potere mistificatorio e di negazione della realtà che attraversa, quasi inconsapevolmente, il linguaggio. Un linguaggio monolitico e autoritario che ha la pretesa di codificare, di manipolare un tutto che non capisce, che non osserva, con cui si rifiuta di dialogare.
Certe definizioni, nel loro idioma totalitario e totalizzante ci schiacciano, ci amalgamano tutt* in una bieca zuppa monocroma e insipida.
Io, da lesbofemminista a mio modo radicale, non pretendo di parlare a nome di tutt*, né che la mia visione del mondo “altra” debba coincidere necessariamente con quella della mia vicina o di una sentinella padana.
In ogni caso, la mia visione è plurale per antonomasia, integra lo sguardo dell'altr* senza inglobarlo, senza fagocitarlo nella mia medesimezza.
Al totalitarismo sfrenato preferisco un sano individualismo che non è narcisismo né superdonnismo, ma scaturisce piuttosto dalla consapevolezza che la mia voce, la mia lingua, il mio lessico non siano una sineddoche che dice il tutto con la parte.
D'altronde, le aberrazioni che percorrono tristemente la nostra storia sono emerse dalla presunzione di rappresentare dei valori validi per tutti. Tutti chi?
Il marò impelagato in vicissitudini internazionali può forse parlare in nome del bambino queer della Preciado, trafitto dalla pallottola dell'alterità?
Mi va anche bene che certi parlino, sproloquino, coprano la mia voce e le nostre voci con dei gracchianti anatemi, ma rinuncino, almeno, ad autoeleggersi portavoce di tutt*, riconoscano una volta per tutte che ciarlano, manifestano, censurano in nome di pochi, sempre meno.
Perché questo cortocircuito grammaticale, linguistico e concettuale procede inesauribile verso l'autodistruzione.











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