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Il coming out di Erica Cohen

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Pensavo ingenuamente – e vabbé, resto giovane – che l'evenemenziale e il demenziale mi avrebbero sempre protetta. Per lungo tempo, in effetti, riuscii ad evitare tutte le forme di clitoridectomia chimica che l'allegra consorteria accademica proponeva, tronfia di sé e dei propri possedimenti: dal tono lectio magistralis a quella libido docendi quasi naturalmente concludentesi in furiose tacchinate di student in fronte al camparino del bar e oltre e ovunque. Non quaglio coi fenotipi.
Oggi, ore 17.30 di un pomeriggio che sembra primaverile, Mantova, io ho strizza.
Credo sia il termine giusto: più che paura è uno strizzarsi addosso prima che appaia l'imponderabile, ovvero quello che secondo Lèvinas è il sale della vita, ma se sei ipertesa ti fotte, e più sali e più sei ipertesa. Il volto dell'altra? Magari, sarebbe un gioco da ragazze, un Monopoli da lesbian bar del cazzo qualsiasi. Io aspettavo Erica Cohen.
Aspettavo un concentrato di fenotipi e, nel contempo, l'antimateria; aspettavo la fine dei tempi, aspettavo Erica Cohen. La sintassi mi era già saltata. Non era che un preludio. Stavo per saltare “io”.
Provai a rendere la mia strizza plausibile ed eventualmente raccontabile con un biopic per le amiche: un cv spaventoso, anche “scopabilissima”. Ma era proprio così? Pensavo a questo? O che si sarebbe insediata in una piega di me? 
A volte giocare d'anticipo non serve a niente, voglio essere franca, e nemmeno inventarsi una trama.
Dovevamo presentare un libro. La cosa fu fatta, credo di poter affermare con ragionevole certezza.
C'era un po' di gente che conoscevo della comunità ebraica mantovana e andammo a bere. Tutto era tranquillo, nello strato indispensabile ma irrilevante dell'esistenza.
Avevo una leggera nausea, ma il campari spritz la rimise a posto. Lei com'era non voglio descriverla. Questa non è letteratura, la letteratura non mi interessa. Ho perso alcune righe di scrittura perché mentre scrivevo non ho guardato il livello della batteria del pc: questo mi ha fatto passare il mal di stomaco. La scrittura non è terapeutica. Piuttosto forse lo è star dentro e fuori come si scopasse, e perdersi?
Ma torniamo a “noi”. I colleghi discettano su Sara Copio-a Sullam, l'illustre ebrea veneziana che sia Erica che io conosciamo fin dai tempi non sospetti, ben prima dell'ipocrita politically correct delle quote rosa. Simpatici. Condividiamo la noia da tortelli di zucca. E usciamo a fumare.
Lei mi prende a sorpresa: - Senti, te sei lesbica, non ne hai mai fatto mistero. Io prima pensavo che la trasparenza fosse un mito cristiano di poco conto, comunque risibile. Poi ho cambiato idea. Non dal punto di vista della trasparenza, ma da quello uh... oh... boh... direi della communitas. Se una non si esplicita -come si dice?- non fa coming out, perde condivisioni importanti. Forse anche svolte visionarie. Quelle mi interessano. -
Perdo ancora una volta la dimensione narrativa. Non so come finiamo a coming out in uno strano posto semiabbandonato della campagna, forse schizza anche del sangue.

La mia fidanzata di Parigi, devota dell'assoluta trasparenza, e anch'ìo con lei, riceve un racconto dettagliato: quello che io qui, scrivendo, non sono in grado di e non voglio fare. E'un'antiretorica che comunque non esce dal discorso. Bisogna pur portare avanti vite decentemente etiche, a modo nostro. Bisogna?
Così io ho scritto. 



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